JOHN FANTE

Miliardi di ettolitri di acqua e neanche un goccio da bere. Acqua che non disseta però indispensabile, strada per andar dappertutto ma senza strade, spirito analcolico che è più dio di tutti gli dei del mondo, lacrime, speranza all’orizzonte, nero di notte e nero di giorno, passione per chi aspetta, futuro per chi guarda; impassibile e morto per alcuni, agitato e pericoloso per altri, degno di contenere, conservare e trasportare qualsiasi cosa a suo piacimento. Il mare. E noi non lo abbiamo mai navigato. Ma ne abbiamo sempre la sensazione e quindi continuiamo a far finta di farlo perché è l’unica cosa che alla fine ci porti con i piedi per terra. Navigare necesse est, vivere non necesse. Si potrebbe interpretare come necessità di navigare e dimenticarsi di vivere, oppure come la necessità di navigare per la vita.

Per questo siamo un popolo di disgraziati, noi italiani, perché abbiamo sempre le parole per descrivere qualcosa ma con le parole siamo capaci di distruggere qualsiasi cosa. Solo con le parole, per puro piacere. Perciò si va per mare e si emigra. Chi ha detto che questa è casa mia? Io parto perché non voglio che nessuno sappia di me e voglio avere proprio l’opportunità di ricominciare dal punto in cui ho deciso di partire. “A quelli che sono rimasti a casa potrete sempre mentire, tanto non amano la verità, non vogliono conoscerla, preferiscono credere che, prima o poi, anch’essi vi raggiungeranno.”  John Fante ­– Denver, 8 Agosto 1909. Emigranza all’incontrario. Partire per andare e sopravvivere per poi tornare e vivere, tornare a vivere. E se fosse questo il nuovo trend? Io le ricordo tutte le mattine in Abbruzzo in cui signore vestite male spuntavano da vigneti infiniti e mi facevano magiare pane caldo e bere vino alle sei. Io me le ricordo tutte quelle docce di prima mattina, nel bagno sul ballatoio, che se uscivi dal cono di acqua calda eri fottuto. Io me lo ricordo quando pensavo che per fare qualcosa di buono sarei dovuto partire e il mio cuore batteva solo al pensiero di quando sarei ritornato per raccontare del dove fossi stato. Così Fante, figlio di emigranti italiani e quindi già emigrante figlio d’arte dalla nascita in un paese che lo chiama Wop, camorristello senza passaporto, o Dago (until day goes) ovvero lavoratore a giornata, comincia il suo viaggio per ritornare a casa. Un viaggio all’incontrario attraverso un’America dalle tinte Hopperiane, color pastello, quella dei vestiti stirati, dei colletti inamidati e dei capelli imbrillantinati. Viaggio all’incontrario, sì, perché anche se americano le sue parole trasudano Italia da tutti i pori anche se lui non c’è mai stato; e quando, dopo il successo, deciderà di andarla a visitare quell’Italia che il padre gli ha raccontato e che lui stesso ha raccontato, chiederà all’autista di tornare indietro prima di entrare in paese per paura di trovare qualcosa di diverso da quello che ha sempre immaginato. E allora di nuovo giù a scrivere un mare di parole condite semmai con del vino scadente che sarebbe meglio rimanere a bocca asciutta ma “è meglio morire di bevute che morire di sete”, come tutti i loser di successo che sacrificano il proprio corpo per le menti altrui. Storie di ordinaria monotonia, storie d’amore tra poveri, storie di alberghi senza stelle e di notti senza luna, storie di chi si trova da solo, lontano da casa e non ha neanche la forza di bestemmiare; storie di chi racconta per non far dimenticare, storie nate dalla polvere dell’Est e del Middle West americano ed è una polvere in cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere. Ma l’importante è scrivere e scriverne perché la scrittura è come il mare e chi scrive è emigrante di pensiero, in luoghi e tempi che son sempre porti sicuri di accoglienza, al contrario di quello che in genere succede nella realtà. “Poi accadde. Una sera mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Ne sapeva più dei padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza, mi cambiò. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come il grande spirito. Volevo scrivere.” E così sia. E così è stato.

Riccardo Ceres

riccarardoceres@gmail.com

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